Clorexidina e impianti “drug‑eluting”: amica o nemica?

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Negli ultimi anni si parla sempre più spesso di biofilm peri‑implantare, microgap corona–abutment–impianto e superfici “intelligenti” capaci di interagire con il loro ambiente biologico. In questo contesto mi è capitato di leggere un lavoro molto interessante, appena pubblicato su Clinical Oral Implants Research, firmato da Kamarudin e collaboratori, https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/clr.70067 che propone un’idea forte: usare l’impianto stesso come sistema di rilascio controllato di clorexidina per modulare il biofilm orale (Kamarudin, Clin Oral Implants Res, 2025).

Se conosci un po’ la letteratura sulla citotossicità della clorexidina, è probabile che ti venga subito da pensare: “Aspetta, ma la clorexidina non è proprio quella che fa male a fibroblasti e osteoblasti?”. È esattamente il punto chiave di questo articolo: capire se e come queste due facce della stessa molecola possano convivere in implantologia.


Cosa fa davvero il lavoro di Kamarudin

Il gruppo di Kamarudin parte da impianti in titanio Ti6Al4V prodotti via stampa 3D e li trasforma in veri e propri “substrati intelligenti” rivestendoli con uno strato di silice mesoporosa, capace di assorbire e rilasciare nel tempo piccole quantità di clorexidina. L’idea è semplice e potente: non usare la clorexidina come collutorio o gel ad alta concentrazione, ma come micro‑dose che esce lentamente dalla superficie implantare, proprio nella fase più critica di colonizzazione batterica post‑chirurgica (Kamarudin, Clin Oral Implants Res, 2025).

Nel modello in vitro, questi substrati vengono esposti a un biofilm multispecie che include patogeni peri‑implantari “classici” (come Porphyromonas gingivalis e Fusobacterium nucleatum) e batteri commensali della salute. Gli autori studiano sia la prevenzione della formazione di biofilm, sia il trattamento di biofilm già maturi. Il risultato è una riduzione significativa della biomassa e della vitalità batterica sulla superficie dei dischi rivestiti e “caricati” con clorexidina rispetto ai controlli, con un rilascio continuo per almeno dieci giorni e senza un picco iniziale esplosivo.

Fin qui, tutto molto promettente. Ma come conciliare questo approccio con ciò che sappiamo sulla tossicità della clorexidina per le cellule ospiti?


Clorexidina: gold standard… ma altamente citotossica

Per decenni la clorexidina è stata considerata il gold standard dell’antisepsi orale: potente, a largo spettro, con buona substantivity sulle superfici dentali e sui tessuti molli (Wyganowska‑Świątkowska, Int J Mol Med, 2016). Spandidos Publications

Allo stesso tempo, però, la letteratura di base ci manda un messaggio molto chiaro: la clorexidina è citotossica per diverse linee cellulari umane già a concentrazioni relativamente basse.

Già negli anni ’70 Goldschmidt dimostrava che concentrazioni uguali o superiori allo 0,004% compromettono la funzione cellulare e possono portare a morte cellulare in colture di fibroblasti e altre cellule umane (Goldschmidt, J Periodontol, 1977). PubMed

Alla fine degli anni ’90, Mariotti e Rumpf mostrano che, anche quando la proliferazione dei fibroblasti gengivali non è ancora drasticamente ridotta, la produzione di collagene e proteine non collagene cala in modo importante, persino a concentrazioni molto basse di clorexidina (Mariotti, J Periodontol, 1999). PubMed

Più tardi, Giannelli e colleghi hanno fatto un lavoro molto elegante su fibroblasti, osteoblasti ed endoteliali: la clorexidina risulta fortemente citotossica in modo dose‑ e tempo‑dipendente, con alterazioni della funzione mitocondriale, aumento del calcio intracellulare e stress ossidativo come meccanismi principali di danno (Giannelli, Toxicol In Vitro, 2008). ScienceDirect

Per quanto riguarda le cellule ossee, Cabral e Fernandes hanno documentato che gli osteoblasti di osso alveolare umano riducono in modo marcato proliferazione e attività funzionale in presenza di clorexidina, anche a concentrazioni ben al di sotto dello 0,2% dei collutori clinici standard (Cabral, Clin Oral Investig, 2007). SCIRP

Questo quadro è stato ulteriormente consolidato da studi più recenti, come quello di Liu et al., che mostrano come concentrazioni dello 0,02–2% – quindi in parte sovrapponibili a quelle usate nella pratica clinica – riducano drasticamente la sopravvivenza e blocchino la migrazione di fibroblasti, mioblasti e osteoblasti in vitro (Liu, J Bone Joint Infect, 2018). PubMed Central

Infine, uno studio molto interessante di Wyganowska‑Świątkowska suggerisce una soglia critica: allo 0,002% la clorexidina non sembra interferire in modo significativo con la crescita dei fibroblasti gengivali, mentre concentrazioni pari o superiori allo 0,04% inibiscono la proliferazione in maniera evidente (Wyganowska‑Świątkowska, Int J Mol Med, 2016). Spandidos Publications

Tradotto in clinica: la clorexidina funziona molto bene come antisettico, ma quando rimane a lungo vicino a cellule che devono proliferare, migrare e produrre matrice (fibroblasti, epitelio, osteoblasti) può diventare un freno importante alla guarigione.


Peri‑implantiti, mucositi e clorexidina: cosa dicono le review

Se spostiamo l’attenzione dal laboratorio alla clinica, il quadro resta sfumato. Una review sul ruolo della clorexidina nel trattamento delle peri‑implantiti conclude che, pur essendo ampiamente usata, la molecola può alterare la topografia superficiale degli impianti, avere effetti citotossici sugli osteoblasti e ostacolare la ri‑osteointegrazione, tanto che viene sconsigliato il suo uso come agente di decontaminazione diretta della superficie implantare nelle peri‑implantiti (Krishnamoorthy, J Long-Term Eff Med Implants, 2022). Manipal University Researcher

Parallelamente, una meta‑analisi aggiornata di Ye e colleghi sulla clorexidina come aggiunta alla terapia non chirurgica di mucosite e peri‑implantite suggerisce che, nel complesso, l’impatto aggiuntivo della molecola sugli outcome clinici è limitato e spesso non statisticamente significativo, soprattutto per il sanguinamento al sondaggio e altri indici infiammatori (Ye, Pak J Med Sci, 2023). PubMed Central

In altre parole, la clorexidina funziona, ma non sembra essere la bacchetta magica per le malattie peri‑implantari e, se usata in modo “aggressivo” sulla superficie implantare o a contatto prolungato con i tessuti, rischia di fare più danno che beneficio.


Allora il lavoro di Kamarudin è un controsenso?

Torniamo alla domanda iniziale: ha senso usare la clorexidina come farmaco rilasciato dall’impianto, se allo stesso tempo sappiamo che è citotossica per fibroblasti e osteoblasti?

La risposta, secondo me, è sì, a patto di capire bene tre concetti: dose, durata e sede di azione.

Primo, la dose. I coating di Kamarudin non rilasciano una soluzione allo 0,12–0,2% come un collutorio, ma microdosi continue, con concentrazioni locali molto più basse, pensate proprio per stare al di sotto della soglia di tossicità per le cellule ospiti, pur creando un ambiente sfavorevole alla maturazione del biofilm (Kamarudin, Clin Oral Implants Res, 2025).

Secondo, la durata. Un’applicazione topica di gel di clorexidina sulla mucosa peri‑implantare può tradursi in ore di esposizione diretta dei tessuti molli a una concentrazione relativamente alta, con tutte le conseguenze del caso sulla proliferazione cellulare. Nel modello di Kamarudin, invece, il rilascio è costante ma estremamente diluito, più paragonabile a una “atmosfera antibiofilm” che a un’irrigazione aggressiva.

Terzo, la sede. La citotossicità documentata riguarda soprattutto cellule immerse in un mezzo contenente clorexidina a una certa concentrazione. Qui, invece, il principio attivo viene emesso dalla superficie titanio–silice e si concentra in primis nella micro‑interfaccia impianto‑biofilm. Lo studio di Kamarudin non valuta ancora l’effetto di queste superfici su fibroblasti o osteoblasti, quindi sarebbe scorretto dire che sono “garantite sicure” dal punto di vista biologico. Ma il razionale è chiaramente quello di tenere la clorexidina il più possibile “attaccata” all’impianto e il meno possibile nei tessuti.

In sintesi, non si tratta di usare la stessa clorexidina dei collutori in una nuova forma, ma di cambiare completamente paradigma: da antisettico ad alta concentrazione e breve tempo di contatto, a micro‑modulatore del biofilm rilasciato a basse dosi dal dispositivo.


Cosa ci portiamo a casa in pratica clinica

Per noi che facciamo implantologia quotidianamente, lo studio di Kamarudin non cambia, oggi, i protocolli di studio. È un lavoro in vitro e non giustifica un cambio immediato delle procedure chirurgiche o protesiche.

Però, lancia un messaggio importante per il futuro: le superfici implantari potrebbero non essere più solo “ruvide” o “trattate”, ma attivamente in grado di rilasciare nel tempo molecole che modulano il biofilm senza disturbare la guarigione tissutale. È lo stesso salto concettuale che la cardiologia ha vissuto con gli stent “drug‑eluting”.

Sul fronte clorexidina, invece, la letteratura ci chiede prudenza. Gli studi su fibroblasti, osteoblasti e altre cellule mostrano un chiaro effetto dose‑dipendente e mostrano che la soglia tra “utile come antisettico” e “dannoso per la guarigione” è più vicina di quanto si pensasse (Goldschmidt, J Periodontol, 1977; Mariotti, J Periodontol, 1999; Giannelli, Toxicol In Vitro, 2008; Wyganowska‑Świątkowska, Int J Mol Med, 2016). Spandidos Publications+3PubMed+3PubMed+3

Le review su mucosite e peri‑implantite suggeriscono che l’aggiunta di clorexidina alla terapia meccanica offre benefici clinici modesti e tutt’altro che costanti, mentre non mancano dati su possibili effetti negativi a livello di superficie implantare e di cellule ossee (Krishnamoorthy, J Long-Term Eff Med Implants, 2022; Ye, Pak J Med Sci, 2023). Manipal University Researcher+1

Personalmente, vedo così il quadro attuale: l’uso “classico” di clorexidina come collutorio o gel peri‑implantare va mantenuto su tempi limitati, ben giustificato dalla situazione clinica e con la consapevolezza dei potenziali effetti citotossici se protratto o concentrato troppo vicino ai tessuti di guarigione. In parallelo, vale la pena tenere d’occhio con interesse gli sviluppi delle superfici implantari drug‑eluting: non per correre a cambiare impianti, ma per capire come la nostra disciplina potrebbe evolvere nel controllo del biofilm e nel ruolo del microgap impianto–abutment nei prossimi anni.

Se ti occupi di implantologia quotidianamente, questo tipo di ricerca non è solo “accademia”: è un anticipo di come potremmo gestire in futuro la sfida del biofilm peri‑implantare, con materiali che non subiscono passivamente la colonizzazione batterica, ma la modulano a livello di superficie, provando a rispettare – finalmente – anche le esigenze biologiche dei nostri fibroblasti e osteoblasti.

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